giovedì, settembre 30, 2010

CAMBIO DI STAGIONE

La quantità di oggetti di cui ci circondiamo è abnorme, spaventosa, inumana. Sì, lo so che è una dichiarazione sospetta all'inizio dell'autunno, quando il guardaroba invernale bussa alle porte degli armadi ma è ancora troppo presto per mettere via quello estivo, pena lo sciogliersi in atroce sudorazione durante le ore calde. 
Proprio così, oggi ho passato il tempo a litigare con gli armadi: cornucopia e vaso di Pandora sono trovate ridicole, in confronto. Dagli sportelli dei più inutilissimi armadi a muro anni '60 (ripiani profondi di cui non si vede la fine, legno scuro a cofondere la vista e la ricerca, spazi a cui non si arriva senza scala, assi di legno di forma ormai stabilmente concava) le robe continuavano ad uscire, a percipitarsi fuori, a scivolare in cascata, ad autovomitarsi con violenza. 
Golfini e maglioni, strati su strati di calzoni multitaglie - meno quella giusta, of course - cappelli troppo grandi e giacche troppo strette, tute come mogli di chick lit, sformate ma non per questo meno amate .  E caftani arabi comprati in Olanda, saldi della Rinascente che vanno per i venticinque anni, kilim ( c'è anche il settore arredamento, giaggià) provati per la terza volta su ogni pavimento e per la terza volta cassati, ritagli di stoffe che prima o poi serviranno certamente... ok, risparmio i miei tre lettori, tanto più o meno in tutte le case è così. E in molte finisce nello stesso modo, con la constatazione che i vestiti che mettiamo davvero sono tre paia di calzoni, una giacca e una manciata di magliette. 
Ho riempito tre grandi sacchi di cose "in partenza" verso varie destinazioni e sempre più mi prende l'odio e il tedio per gli oggetti, per queste case sempre troppo piene ("non vorrai mica buttarlo via, vero?" ), per l'infinito prendere e spostare e pulire e traslocare e riportare e smistare che - bisognerà pur ammetterlo, prima o poi - è un vero lavoro, un lavoro che noi paghiamo per fare, e non il contrario. 
Mi ricordo vagamente le cucine vuote della mia primissima infanzia: una credenza, una retina per fare la spesa (un cartoccio con il riso, un sacchetto con il pane, un involucro per un pezzo di formaggio, un tipo di verdura, il tutto in tre negozi diversi), una pentola per ogni tipo, due o tre bicchieri in più rispetto alle persone della famiglia. Poi, certo, c'era "il servizio bello" di là, nel buffet: che aveva molti sportelli a chiudere un ampio spazio in cui navigava una scatola di biscotti.
Gli armadi si stavano già ingrandendo, ma fino a poco tempo prima in un armadio a due ante, senza sopralzo, stavano comodamente i vestiti di due persone.

Il vuoto, lo spazio di quegli ambienti fa impressione: se ci capitiamo dentro, come nella cucina di Coppi, gli occhi cercano "altro", cercano oggetti su cui posarsi, cercano forme lungo le pareti nude, mobili nascosti, ripostigli segreti, sportelli e bauli...  senza rendercene conto, continuiamo a girare lo sguardo intorno, senza sapere se ciò che (non) vediamo è tristezza o libertà. Fateci caso se vi capita di vedere un vecchio film, dei giornali d'epoca: il vuoto - nelle strade, nelle case, nelle pubblicità - è palpabile: non si sa dire cosa manca, ma si percepisce il vuoto, e la pulizia di quell'assenza.
Si parla di decrescita e ogni persona sensata non può che riconoscere la necessità di una "nuova" sobrietà, di un agire più sano che non riempia la nostra vita con le Cose: eppure, chiuso l'armadio, so che dovrò comprare almeno un paio di pantaloni, un golf, fors'anche una giacca. E abbiamo finito i crackers e il tofu, e c'è chi ha bisogno i quaderni e chi la saponetta, senza contare che sarebbe anche ora di comprare l'antiscivolo per il tappeto e uno zaino decente per chi porta lo zaino (totale, due zaini decenti). Lo zaino serve per portarci dentro le cose, ovviamente: hanno bisogno di noi per andare da un posto all'altro. E sono instancabili, neh?

(sì, lo so, avrei dovuto parlare del governo e della sua pagliacciata, Bibì e Bibò  che si fanno carognate ma poi amici come prima: ma, in quel caso, il titolo del post sarebbe stato proprio sbagliato)



5 commenti:

Enzo Costa ha detto...

È superfluo commentare che forse abbiamo perso la concezione del superfluo?

lastreganocciola ha detto...

:-)

kiri ha detto...

La filosofia spicciola del "sono le cose che possiedono noi" viene facile facile - e non esito a dire che sono d'accordo sul sentimento di disperazione che spesso (sempre?) prende quando ci si ritrova davanti ad armadi/cassetti/stanze ricolmi di non si sa neanche bene cosa. Epperò: sono stata a trovare una persona che non conoscevo. Relazioni di lavoro, l'invito cordiale "venite da noi, stasera, ci mangiamo una cosa veloce" e avevano 'sta casa simil giapponese, con una grande sala da pranzo e dentro solo il tavolo e sei sedie. Neanche un quadro, un vaso, pareti grigio perla immacolate. Una semplicità francescana. Solo la cucina, di tutta la (bellissima) casa aveva l'aspetto delle cucine normali. Mi domando in che stanza trascorrano maggiormente il loro tempo ...

lastreganocciola ha detto...

mah, ecco, delle pareti grigio perla faccio ameno anche nella più esasperata visione minimalista: sobrietà e snobismo non sono proprio la stessa cosa, già.

kiri ha detto...

be' non li conosco abbastanza per sapere se sono snob - ma per quel poco che ho avuto a che farci mi sono sembrati molto carini e alla mano... ma le pareti erano grigie, essì, e nel salottino erano color vaniglia. Qui, peraltro, c'era pure un minuscolo angelo di gesso, appeso a un filo lungo lungo, sulla parete. Magari hanno scelto di avere degli ambienti minimal chic e poi negli altri (la cucina, e magari le camere) gli armadi traboccano... un po' come il salotto buono di una volta, per capirci