"Non facciamo bene niente finchè non smettiamo di pensare al modo di farlo." Me l'ha detto il mio Citarandom, qui di fianco ai post: è una frase di William Hazlitt (1788-1830), saggista e critico inglese, arrivata proprio mentre stavo pensando alla scrittura e allo slow-time.
Non mi aspettavo reazioni sì entusiaste al mio post sulla scrittura rotonda - grazie, a propòs - e ora temo di deludere il mio ristrettissimo pubblico tornando sull'argomento, ma me l'arrischio. E la frase di Hazlitt è giunta a puntino, perchè riesce a centrare il primo bersaglio, cioè la fluidità, lo scorrere: che non è, ovviamente, il banale automatismo. L'automatismo serve, ad esempio, per guidare: ma se è vero che chiunque guidi deve imparare a farlo in automatico, sennò non sa guidare, non è affatto detto che ciò coincida con il guidare "bene".
Sulla scrittura non sempre lo scorrere è quello che sembra: anzi, forse non lo è quasi mai. Che capita, a chiunque piaccia scrivere e ci provi con un po' di serietà, di essere trascinati dalla propria penna (tastiera, ok) e di riempire furiosamente una pagina o trenta: il risultato può essere buono o meno buono, anche se la soddisfazione in questi casi tende a essere alta. E' bello, infatti, lasciarsi andare alla scrittura, all'"ispirazione", al fluire appunto di parole e concetti. Poi verrà il momento di aggiustare, ma intanto si va, e si va perfino veloci.
Però c'è un altro modo, meno pubblicizzato del furore creativo, ma spesso più efficace almeno dal punto di vista dello "scrivere bene"( dire "letterario" sembra troppo pomposo, ma insomma quello è, in effetti).
Quell'altro modo lì è quando fai fatica a scegliere ogni singola parola, ma non riesci a fermarti lo stesso: lentamente, quasi penosamente, ogni vocabolo usato deve rientrare in un disegno, in una specie di geometria, come le note in un pezzo musicale.
E, come una musica, lo scritto nel suo insieme deve rotolare - già, si torna al rotondo - via dentro le orecchie, scorrere liscio e armonico dentro la mente. Come il rumore del treno quando si è contenti di essere in viaggio, come la pioggia sui vetri quando sei davanti a una cioccolata, come un movimento di yoga quando lo sai fare davvero.
Fluido, appunto, che non si veda per nulla lo sforzo, la ricerca della parola giusta, della frase che è quella e non può essere altra. Mentre sto pensando questo mi distraggo, e nella distrazione, pensa te, trovo per caso sul web un pezzo di Pietro Citati su Virginia Woolf, in cui c'è questa frase: "La Signora Dalloway, a cui Virginia Woolf cominciò a pensare nell' ottobre 1922, si chiamava da principio Le ore. Il 9 febbraio 1924 scriveva: "Questa volta credo di aver scoperto un filone. Spero di estrarne tutto l' oro... E il mio filone d' oro è molto profondo, in gallerie molto tortuose. Devo avanzare penosamente per sfruttarlo, curvarmi, andare a tastoni." Ecco, insomma, non sono solo io a dirlo...
Ma la ricerca mai si deve vedere, neppure quella che viene fuori dalla decima revisione, neppure se uno vuole usare solo termini ottocenteschi o nerdissimi: ma in particolare non si ha da vedere la ricerca che sta dietro questo tipo di scrittura, a cui si può permettere solo di fluire già "perfetta".
Lo so, sembra una contraddizione in termini (ed è ovvio che perfetta non sarà e avrà ugualmente bisogno di buone revisioni), ma insomma la si può lasciar fluire così, già precisa e mirata e lenta e faticosa, perchè c'è tutto un lavoro della mente, dietro. E anche dell'anima, se mi passate questo termine preso a prestito.
Un lavoro che permette prima di tutto di "vedere " la scrittura così come la vogliamo, e solo dopo tradurla in parole. Banalizzando estremamente il tutto, sarebbe come inventarsi un personaggio che si chiama, che so, Romolaccio: non si potrà farlo parlare in milanese o in veneto, no? Al suo nome corrisponderà, dentro la nostra testa, il suo modo di parlare e a quello cercheremo di far aderire la scrittura dei suoi dialoghi o pensieri, ascoltandoci scrivere per capire se lo stiamo facendo come si deve. Perchè la "scrittura che vogliamo" non è detto che ci venga spontanea, che ci arrivi addosso perchè noi siamo noi: a volte può essere la nostra lingua, a volte può mischiarsi a quella del libro - o qualchelè - che vogliamo scrivere. Ogni libro ha infatti la sua personalità, perfino quelli non ancora scritti: e a volte, anzi, lo scrivere può anche non essere per niente la nostra lingua, ma solo quella del libro che vuol essere scritto.
Eh, sì, a parlar di scrittura si finisce sempre molto vicino alla cabala o giù di lì e non è un caso se un sacco di scrittori si sono cimentati nell'accostamento fra libri e magia. E, naturalmente, sono anche finita fuori tema perchè anche i post a volte si scrivono da soli, e lo slow-time da tutto ciò è rimasto un po' fuori: ma mi sa che imiterò il brother e su quest'argomento farò ancora qualche divulgazia. Divulgazia in progress, diciamo così.
martedì, marzo 24, 2009
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