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Che mi piaceva di fare una bella recensionciona, tanto il concerto è stato grande e l'uomo ancor più, nella sua gentilezza e bravura.
Ma forse sarebbe stata inutile, chè le emozioni non si possono raccontare e il resto sarebbe stato colore. Dalla pessima organizzazione dei biglietti, che ha fatto rumoreggiare il pubblico metà fuori e metà dentro fino alla terza canzone, a questa band che si avvia decisamente alla terza età con mani e fiati da virtuosi, facce patibolari e giacca e cravatta completata da vari gradi e modi di sformare un borsalino.
E a questo punto, però, non si riesce a non raccontare di come lui, Leonard Cohen, costruisca tutto attorno al proprio, di borsalino: che si toglie per ringraziare, per cantare in ginocchio, per portarselo sul cuore, scoprendo la testa bianca con gesti da antico aristrocratico.
Accenna qualche movimento di danza con quella rigidità tutta ebraica in cui le gambe paiono disarticolate, ma nel suo caso l'ebraismo è passato attraverso il buddismo e il buddismo attraverso l'autoironia, e si vede.
Una ventina d'anni fa, a Milano, non ancora il mito di oggi, la sua presenza sul palco era severa, la coscienza di sè visibile. Se sia stato il prendersi cura del suo maestro Roshi o
Ecco, forse fin qui si può raccontare, ma oltre... come rendere l'effetto dal vivo della canzone multiorgasmica fra i canti sacri, Hallelujah, o la tenerezza del gioco di sguardi con la vocalist di sempre, Sharon Robinson, o come piglia al cuore la "solita" Suzanne?
Impossibile, già. Contentatevi delle foto impressioniste.
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