domenica, giugno 20, 2010
SLOW BOOK
Ecco, vi dico subito la verità: ho letto un libro di più di mille pagine. millecentotrentasette, per la precisione.
Ciò è grave in questo Paese, ma tocca dirlo subito facendo coming out, per parlare de "Le ultime cronache del Barset" di Anthony Trollope, classe 1815.
Trollope non è, tuttora, considerato un grandissimo scrittore, anche se la costanza di Sellerio nel ripubblicare tutte le sue ponderose opere mi fa pensare di non essere l'unica lettrice, ma è senza dubbio un ottimo e puntiglioso cronista della società in cui viveva. Su Wiki trovate il giudizio che ne diede Henry James e che mi permette di risparmiarvi il mio, passando al vero motivo per cui parlo di Trollope, e cioè Josiah Crawley.
Crawley è un "curato perpetuo" e tutta la vicenda si svolge fra gli incomprensibili (per noi) scenari della chiesa anglicana, con cariche ci suonano misteriose e altrettanto oscure distinzioni: ma possiamo fare a meno di capire, il punto importante è che il signor Crawley è accusato del furto di un assegno di venti sterline, che avrebbe girato a un creditore senza conoscenrne la provenienza. Tutto il romanzo, con l'eccezione forse di un centinaio di pagine sparse in cui davvero succede qualcosa, è di fatto gossip allo stato puro: nell'impossibilità, infatti, di poter stabilire in tempi brevi se Crawley è davvero colpevole nonostante l'assoluta integrità morale per la quale è noto, nella cittadina (immaginaria) di cui è curato e in quelle vicine si scatenano ridde di ipotesi e di prese di posizione, mentre conseguenze impreviste sembrano profilarsi a seconda del prevalere di un'opinione o di quella opposta.
Fin qui, di eccezionale c'è l'incredibile capacità di Trollope di non annoiare il lettore: ogni osservazione è talmente realistica, giustificata, plausibile che perfino quando un intero capitolo si snoda sulle esitazioni di uno qualsiasi dei personaggi, si va avanti a leggere, oscillando insieme alle sue contraddizioni.
Ma quello che è davvero interessante è il ritratto di Crawley come man mano si delinea: oggi lo si definirebbe un ciclotimico, o forse un depresso cronico con rari momenti di vittoria sulla propria "malattia" . Nell'800 era solo una persona strana e tormentata, che tutti tenevano a distanza eppure stimavano proprio per il suo bizzarro carattere: Trollope riesce a dimostrarci, pagina dopo pagina e senza tuttavia mai esprimere un giudizio, come la malattia di Crawley sia soprattutto uno smodato orgoglio travestito da modestia e da volontà di non pesare sugli altri.
Crawley, che ha due figlie e una moglie, è infatti afflitto da una povertà che sente indegna di lui, come provocata da ingiustizia palese pur senza che nessuno ne sia responsabile. Ma che lui, erudito e pio e scrupoloso fino all'eccesso, debba mancare di quei pochi beni materiali che gli renderebbero più agevole il lavoro, mentre il suo vecchio amico può sfoggiare libri rilegati in oro - libri che non leggerà mai, è questo il peggio - ecco, a Crawley proprio non va giù. E non tanto per sè, sostiene, quanto per la devotissima moglie e le rispettosissime figlie. Dal momento, quindi, che si vergogna della povertà che infligge loro, Crawley sta ben attento a non aggravare la propria posizione accettando aiuti, prestiti, offerte di collaborazione e di difesa: e la moglie deve far entrare di nascosto in casa il cesto di viveri che le regala l'amica, e il parente avvocato studiare tutta una strategia che permetta al brav'uomo di accettare una difesa nel caso si arrivi al processo, e il vecchio amico presentarsi a casa sua vestito del suo abito peggiore, e via di seguito.
Ma non basta, perchè Crawley deve dimostrare a tutti la propria povertà e la propria coerenza: così, se il vescovo lo chiama nella cittadina vicina, lui si alza prima dell'alba per poter fare a piedi tutta la strada. Non andrà poi così perchè la moglie si ingegna a studiare un astuto sotterfugio perchè lui possa accettare una passaggio in calesse, ma non per questo il curato rinuncerà a fare quanta più fatica inutile possibile, per poi ammalarsi e fare stare tutti in pena.
In termini moderni, Crawley è un esimio testa di cazzo e riesce più volte ad esasperare perfino il lettore, oltre che i suoi amici e parenti. Eppure, Trollope è bravissimo nel disegnare l'animo contorto e tuttavia limpidissimo di questo esemplare zuccone: riesce a comunicarci tutta la sua assoluta convinzione di essere nel giusto, tutto quell'arido eppure intoccabile rigore nell'aderire a principi assurdi, tutta quella voluta eppure reale cecità di fronte alla fatica supplementare che fanno gli altri per volergli bene nonostante. Si richiama a concetti come l'onestà e il dovere, ma anche ad altri come l'autonomia e il rispetto, senza accorgersi di quanto la loro somma diventi del tutto ingestibile in una dinamica di affetti qual è quella da cui è circondato nonostante se stesso.
Quando, per il proprio irrinunciabile orgoglio, è disposto a mandare all'aria perfino il matrimonio della figlia con il classico ( e benestante) bravissimo ragazzo, vien proprio da esclamare "ah, no, basta, che stronzo!" : ma un po' di pagine dopo non si può non esultare e non aver voglia di abbracciarlo quando, finalmente, la spinosa vicenda a suo carico si risolve.
Insomma, Trollope è bravissimo - grazie anche al fatto di non dedicare il minimo pensiero a una narrazione sintetica - a disegnare le contraddizioni umane, di cui Crawley diventa la massima espressione: e se si ha la pazienza di leggerlo nella sua ponderosità si possono fare molte riflessioni su Tizio e su Caio che, to', sembrano proprio il Maggiore Grantly o John Eames.
Ma, appunto, è proprio Crawley a suggerirci il maggior numero di pensieri, chè il suo atteggiamento non è così poco comune da risultarci alieno. Tutti abbiamo delle false modestie che si trasformano facilmente in orgogliosi quanto inutili puntigli, o addirittura sfoggiamo tutte queste virtù insieme, convinti di essere, noi e noi soli, nel giusto: quando invece non stiamo facendo altro che rendere la vita difficile a chi ci vuol bene e magari vorrebbe aiutarci in questa o quella contingenza. Spesso chiamamo queste cose indipendenza, o coraggio, quando invece sono più simili a presunzione e insicurezza, al voler dimostrare a tutti i costi ciò di cui noi stessi non siamo certi: io non mi curo della mia povertà, dice continuamente Crawley, e intanto fa in modo che nessuno possa dimenticarla neppure per un breve istante.
C'è chi è più Crawley e chi lo è meno: ma se non fosse improponibile il consigliare la lettura, oggi, di un libro di milletante pagine, bisognerebbe caldeggiarlo con forza per una salutare opera di autocoscienza.
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1 commento:
Gnomo dixit:
la mia velocità di lettura è nota. Se tu ti impegni a star qua fino alla fine della mia lettura, io leggo le 1137 pagine. A proposìt, io che non capisco nemmeno la religione del ns. neoteologo di riferimento, capirò mai la religione del tuo libro raccomandato?
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