giovedì, aprile 29, 2010

IL NOSTRO GIORNO


Ci sono dei lavori, dei lavori che si fa una fatiiica a finirli... metti, per esempio, uno che oltretutto non ha padroni ma non ha neanche paga. e un altro potrebbe dirgli Allora che lavori a fare? prenditela comoda e goditi la vita, no? Ma non è mica così semplice la cosa.
Perchè pare che, almeno qui nella cultura occidentale, non siamo stati capaci di inventarci qualcosa che sia tanto meglio del lavoro per dare un senso alla vita.
Il cosiddetto "tempo libero", che è invenzione della moderna società capitalista come si può leggere in questo bellissimo saggio, ha senso solo se contrapposto al tempo del lavoro, ma d'altra parte ne ricalca gli schemi, l'organizzazione, gli obiettivi.
Un lavoro, che sia di nome o di fatto, remunerativo o volontario, creativo o di fatica, è l'opposto del coraggio manzoniano: chi non ce l'ha, se lo deve dare. E non è, credetemi, un'esigenza nei confronti degli altri - anche se non bisogna sottovalutare la difficoltà di presentarsi a qualcuno senza un lavoro a garantire uno status qualsiasi - ma sembra proprio un bisogno di definire se stessi attraverso ciò che si fa.
Il "lavoro" è, in fondo, la testimonianza che lasciamo: non tutti possiamo essere artisti o eroi, sì da meritarci gloria imperitura, ma ognuno lascia dietro di sè soprattutto ciò che ha fatto. Forse sarebbe bello che non fosse solo così: sarebbe bello se la memoria del fabbro rimanesse nelle risate che ha fatto fare ai figli e non solo nella cancellata che circonda la villa. Ma se dobbiamo definire il fabbro, se vogliamo parlare di lui quando è vivo o quando sarà morto, citeremo la cancellata, non le risate.
Così, anche chi può non lavorare o non può lavorare (che non è affatto la stessa cosa, nonnò), un lavoro se lo trova. E quando capita che il lavoro sia senza padroni nè paga, e si arriva al punto noioso (e quale lavoro non ha punti noiosi?) allora, come dicevo, continuare è una fatica e ogni pretesto è buono per rimandare.
Scrivere un post, ad esempio. E chiedersi se davvero la cancellata merita di più delle risate, se davvero definisce meglio un uomo: io credo di no, eppure è un fatto che la cancellata sia visibile e riconoscibile da tutti, mentre per ricordare le risate ci vuole che qualcuno (chi rideva, chi guardava) ne coltivi la memoria dentro di sè. Non sono discorsi funebri, sono cose di tutti i giorni: la vita scorre e quel che si lascia indietro può essere salvato o perso, proprio come su un computer - anche se spesso con criteri assai più random.

Ma, ecco, forse il nodo è che non esistono metri di misura per la gioia, la felicità, l'altruismo, l'umanità, non siamo ancora stati capaci di inventarli. E il lavoro, allora, diventa "realizzazione di sè" anche quando non dovrebbe esserlo o quando potrebbe non esserlo. Diventa un modo per dire "io esisto", o perfino "io esisto e sono così". In quello che facciamo ci riconosciamo, e ci riconoscono gli altri, anche e perfino quando il lavoro che facciamo non ci piace, e tanto più quando invece ci dà davvero la possibilità di esprimerci o di raggiungere qualcosa a cui teniamo profondamente. Non dovrebbe, questo è certo, essere l'unico metro di misura e sarebbe bello se il Primo Maggio oggi si arricchisse di nuovi significati invece che
svuotarsi dei vecchi, diventando per esempio la Festa della Dignità, l' Yourself Pride, il Giorno dell'Essere.

Ma, 'tanto che aspettiamo che qualcuno ci pensi, va bene anche accontentarsi di festeggiare il Lavoro con un giorno di libertà dallo stesso, andando per prati e boicottando i negozi che tengono aperto.

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