lunedì, febbraio 01, 2010

IL PICCOLO MALE


"Ogni volta che facciamo veramente attenzione distruggiamo una parte di male in noi stessi." Simone Weil la conosco poco e, pur quel poco non è mai stata una mia passione, chè i mistici non fanno per me. Lei ha dedicato una grande parte delle sue riflessioni al tema dell'attenzione e su alcune cose mi trovo d'accordo con lei, soprattutto nella parte che oggi definiremmo più zen, ma nel complesso tutto l'aspetto mistico mi allontana assai, appunto. Però sono andata a ri-cercarmi - benedetto sia il gugòl - la frase in apertura di post, chè l'avevo vista qualche giorno fa e mi aveva colpito: un po' esagerata, forse, specialmente se estrapolata dal contesto che le dà un senso più proporzionato, ma che tocca comunque un nodo importante.

Quando ero ragazzina, ai rimproveri di mia madre per non aver fatto "bene" questa o quella cosa, rispondevo "E' lo stesso": come tante altre madri prima e dopo di lei, anche la mia andava in bestia nel sentire questa risposta.
E io, sinceramente, non capivo: perchè non era la stessa cosa?
Dopotutto, avevo fatto quello che mi era stato chiesto, no?
Solo da adulta, nonchè madre a mia volta, ho capito, e non è stato facile chè ancora qualche dubbio ogni tanto mi coglie.
Ma, insomma, ciò che conta non è solo il risultato: e lo sappiamo bene quando a cucinare è un uomo, per esempio, no? Uso uno stereotipo, certo, ma è un classico quello dell'uomo in cucina che raggiunge risultati sopraffini ma lascia da pulire che una settimana
non basta. E, d'altra parte, è altrettanto ovvio che un modo "corretto" di affrontare le cose non ha molto valore se poi a mancare è il risultato.

Fin qui sono tutti d'accordo, in teoria, ma in pratica la partita si gioca tra due o più diversi modi di fare le cose che, dice chi si sente rimproverare una mancanza di attenzione, sono ugualmente validi. Può essere giusto: può essere che il figlio/a pur di sbrigarsi a fare una noiosa roba di casa, inventi un modo più rapido ed efficace di arrivare allo stesso risultato. Val sempre la pena di guardare cosa e come fanno i pigri e gli svogliati a fare le cose, a volte c'è da imparare.

Più spesso, però, capita che quella che appare "mancanza di attenzione" semplicemente lo sia: e per distinguere, io credo che si possa tracciare una discriminante tra ciò che richiede ulteriori sforzi per arrivare a un risultato giudicato comunemente (cioè dalla collettività investita da quell'azione) accettabile, e ciò che invece è compiuto in sè.
Non ci sono criteri obiettivi e universali per le piccole azioni quotidiane, ma c'è una norma - non scritta e non sancita, elastica e tuttavia piuttosto precisa - che regola le convivenze, le colleganze, le amicizie, le collaborazioni.
Non tutti i componenti di quella precisa collettività sceglierebbero di vivere secondo le regole che seguono in quella precisa collettività, è vero: tuttavia, sanno bene che quella collettività funziona finchè un insieme di norme viene rispettato e seguito. A me danno fastidio le briciole sul tavolo, a te i calzini per terra, a Giovannino le cornici storte e a Mariolina i vetri sporchi: detto così, una bella famiglia di ossessivi, ma in verità ognuno di noi ha le proprie idiosincrasie. E se io, Giovannino e Mariolino ci ricordiamo di non buttare i calzini sporchi per terra, cioè facciamo attenzione, non è che poi tu puoi permetterti di lasciare tutte le cornici storte quando tocca a te spolverare.
Perchè l'attenzione, è qui il punto, non è mai attenzione solo alle cose: è attenzione alle persone.
Tutto ciò che richiede, per raggiungere il risultato comunemente ritenuto accettabile di cui sopra, l'intervento di un'altra persona, è un comportamento "poco attento".

Non si sta parlando della distrazione casuale, episodica, ma di quella ripetuta, dell'approssimazione, dell'improvvisazione: fatto salvo che ad alcune categorie di persona (gli adolescenti e gli innamorati, i veri geni e i veri artisti, per esempio) è riconosciuto un "diritto alla distrazione", neanche per loro il diritto è onnicomprensivo.
Perchè arriva il giorno in cui la disattenzione appare per quello che è, una forma di "meno bene". Un piccolo male, per dirla con Simone Weil, un'epilessia - moderata negli effetti, ma pur sempre - dell'affetto e dell'amore.
"Non mi interessa imparare, non voglio mettere attenzione in ciò che faccio, non mi accorgo neppure se ogni volta devi intervenire a tu a correggere, a finire, a completare, e tanto meno ho voglia di discutere per fare passare una norma diversa, un compromesso che accontenti di più entrambi: quello che ti dico con la mia disattenzione insistita, ripetuta, costante, è che io ho di meglio da fare, di meglio da pensare": come non avvertire il meno amore? L'amore che ama se stesso più dell'altro?

Uh, quante storie, vien da pensare quando questo tipo di riflessioni si traduce in una banale lite di coppia, o fra conviventi: eppure, quando la mancanza di attenzione si fa palese e non nascosta come avviene nella routine domestica, viene considerata senza dubbio offensiva. Dimenticare un compleanno, un invito, un nome, richiede delle scuse, chè la mancanza di attenzione viene senza mediazioni assimilata all'indifferenza.
E accade spesso che quando la mancanza di attenzione è pesantemente e ripetutamente subita all'interno di una relazione, investendo anche aspetti più importanti della routine, chi la subisce si arrovelli per trovarne le ragioni, costruendo scenari psichici problematici e contorti pur di trovare una ragione a tanta dis-trazione, a tanto disinvolto proclamare "è lo stesso!" In genere, ma non è detto, sono le donne a compiere quest'operazione, a trovare motivi e traumi infantili per il meno bene: tutto essendo preferibile all'indifferenza.
Allora, nonostante Simone Weil continui a non piacermi granchè, ecco che forse non ha tutti i torti nell'indicare come "male in noi stessi" la mancanza di attenzione.

E se volete portare il discorso dal piano personale a quello politico e sociale... be', mi pare che funzioni anche lì, no?

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