venerdì, agosto 26, 2011

SVOLO A VISTA

 
Ci vuol poco a traviare un blogger: basta che sia gà troppo tardi per scrivere un post decente e che, soprattutto, un nuovo lettore di affinità natali dimostri il suo apprezzamento per l'osservazione sul volo dei piccioni ( e sì, ha ragione anche sulle tortore) per trasformare un concettoso post che si rigira nella mente già da un po' in un esercizio di osservazione.
Be', gli argoment sono diversi: il post che ancora una volta rimando sarebbe su un bellissimo librettino di un polacco a noi credo ignoto, Mariusz Szczygiet, "Reality" pubblicato da Nottetempo, che apre la strada nientepopodimeno che a riflessioni sulla vita. 
Il secondo, quello che vi tocca ora, è invece Ciò che vedo dalla mia finestra, che è ciò che mi diverto descrivere nella mia mente quando non riesco a pensare di meglio: in realtà entrambi i post hanno a che fare con l'osservazione, come scoprirete se mai riuscirò a scrivere il primo e come è lampante in questo che segue - se riesco ad abbandonare quest'abitudine di scrivere  premesse più lunghe del post.
Che ho anche scoperto che un sacco di gente non guarda mai, proprio mai, con attenzione e libertà di pensiero qualcosa che sia vivo e vitale, e non un aggeggio elettronico, un motore o un pezzo di carta, e me ne dispiaccio.
Be' insomma, essendo che le mie finestre sono sopra le cime degli alberi, in cima alla Rocca, ho due scelte: o guardare giù i vicini coi bambini che giocano nel prato - e mica è bello, neh, se non ogni tanto - o aspettare le ore più quiete e guardare la popolazione avicola. Ovviamente, tutti capiranno perchè devo ricorrere a curiose perifrasi per definire gli oggetti delle mie osservazioni, perciò procedo. 
Venire ad abitare qui è stata una sopresa: di fronte alla casa dove stavo prima c'erano un po' alati abitanti, ma vivevano nel folto di un muraglione e non si vedevano mai, invece qui ho scoperto gente volante che non avevo visto mai. Specie che ormai vivono in città, ovviamente, ma che raramente si possono osservare con calma.  

E così, nella vacuità che a volte prende specialmente se è un tramonto pigro per scelta o per forza, si tende ad antropizzare: i pappagalli verdi grandi - quelli piccoli qui non ci sono - fanno casino tutto il giorno, ma al calar del sole sciamano gridando come bambini che escono da scuola e si posano sul larice uno qua e uno là, come decorazioni fuori tempo e fuori cromia dell'albero di natale. Non stanno mai in due nello stesso posto: se uno prova ad occupare l'unico posatoio che c'è qui in giro - un'alta sbarra di ferro su cui ci starebbero in dieci - il precedente occupante si sposta lungo il bastone finchè non spinge via il malandrino, proprio come a scuola i ragazzini refiosi sulle panche. Uno si immagina i pappagalli animali allegri e ridanciani, e invece mica tanto, neh? I merli invece lo sono, con i loro fischi che mettono subito il buonumore e il loro saltellare dinamico e spensierato insieme.
Neanche le gazze  sono allegrone, anzi vagamente inquietanti, ma compensano in eleganza: il loro volo è magnifico, le grandi ali bianche nere planano qua e là silenziose, precise, dando l'impressione che ci sia un vento sottile tutto per loro. A terra perdono un po' del loro allure, ma restano imbattute di fronte a corvi o cornacchie (chi sa la differenza? io non sono ancora riuscita ad appurarla) che non smentiscono la loro fama disneyana di tristi notai: tutti neri, se trovano il banchetto di un prato appena seminato ci si precipitano sopra e sembra di vederli camminare sulla tovaglia, senza nessun riguardo. 
Tutt'altra cosa la gentile upupa, che arriva qui stagionalmente in coppia e se ne va con prole - credo - e che si perde in certi immobili incantamenti lì sul prato all'imbrunire: ogni tanto solleva la crestina e a volte perfino allarga la coda, a dimostrare che è proprio lei, con i suoi colori incredibili e la sua levità da dipinto giapponese. C'è stato per un po' anche una sorta di cugino dell'upupa che non sono riuscita a identificare, più grande e senza cresta, ma con gli stessi colori,  che la seguiva saltellando su prato e cespugli. Chissà chi era e cos'era, e perchè se n'è andato. 
I gabbiani sono usciti dal periodo di piccoli e nidiate, ma non ne manca mai almeno uno con la sua stridula risata, e poi naturalmente ci sono tutti gli altri, quelli che si sospettano e non si vedono: il mio preferito, anche se non so com'è fatto, è l'uselin dell'acqua. lo chiamo così io, perchè in quel quarto d'ora che precede la pioggia i suoi colleghi si zittiscono e in quel silenzio si sente solo il suo "piiip, piip". E io, che amo la pioggia d'inverno e d'estate, gli sorrido da quassù anche se lui non lo saprà mai.

1 commento:

Aglaja ha detto...

Torno da un mese in cui ho fatto il vuoto (reale e virtuale) per cercare di riprendermi da un anno particolarmente stressante.
Ho letto ora i tuoi post agostani.
Credo che non solo il tuo sorriso, ma anche il tuo sguardo e i pensieri arrivino all'uselin dell'acqua e ai suoi amici volatili.
Come arrivano a noi, col volo delle tue parole leggere e colorate di scuro e di chiaro.
Un abbraccio
A.