Proprio così, oggi ho passato il tempo a litigare con gli armadi: cornucopia e vaso di Pandora sono trovate ridicole, in confronto. Dagli sportelli dei più inutilissimi armadi a muro anni '60 (ripiani profondi di cui non si vede la fine, legno scuro a cofondere la vista e la ricerca, spazi a cui non si arriva senza scala, assi di legno di forma ormai stabilmente concava) le robe continuavano ad uscire, a percipitarsi fuori, a scivolare in cascata, ad autovomitarsi con violenza.
Golfini e maglioni, strati su strati di calzoni multitaglie - meno quella giusta, of course - cappelli troppo grandi e giacche troppo strette, tute come mogli di chick lit, sformate ma non per questo meno amate . E caftani arabi comprati in Olanda, saldi della Rinascente che vanno per i venticinque anni, kilim ( c'è anche il settore arredamento, giaggià) provati per la terza volta su ogni pavimento e per la terza volta cassati, ritagli di stoffe che prima o poi serviranno certamente... ok, risparmio i miei tre lettori, tanto più o meno in tutte le case è così. E in molte finisce nello stesso modo, con la constatazione che i vestiti che mettiamo davvero sono tre paia di calzoni, una giacca e una manciata di magliette.
Ho riempito tre grandi sacchi di cose "in partenza" verso varie destinazioni e sempre più mi prende l'odio e il tedio per gli oggetti, per queste case sempre troppo piene ("non vorrai mica buttarlo via, vero?" ), per l'infinito prendere e spostare e pulire e traslocare e riportare e smistare che - bisognerà pur ammetterlo, prima o poi - è un vero lavoro, un lavoro che noi paghiamo per fare, e non il contrario.
Mi ricordo vagamente le cucine vuote della mia primissima infanzia: una credenza, una retina per fare la spesa (un cartoccio con il riso, un sacchetto con il pane, un involucro per un pezzo di formaggio, un tipo di verdura, il tutto in tre negozi diversi), una pentola per ogni tipo, due o tre bicchieri in più rispetto alle persone della famiglia. Poi, certo, c'era "il servizio bello" di là, nel buffet: che aveva molti sportelli a chiudere un ampio spazio in cui navigava una scatola di biscotti.
Gli armadi si stavano già ingrandendo, ma fino a poco tempo prima in un armadio a due ante, senza sopralzo, stavano comodamente i vestiti di due persone.
Il vuoto, lo spazio di quegli ambienti fa impressione: se ci capitiamo dentro, come nella cucina di Coppi, gli occhi cercano "altro", cercano oggetti su cui posarsi, cercano forme lungo le pareti nude, mobili nascosti, ripostigli segreti, sportelli e bauli... senza rendercene conto, continuiamo a girare lo sguardo intorno, senza sapere se ciò che (non) vediamo è tristezza o libertà. Fateci caso se vi capita di vedere un vecchio film, dei giornali d'epoca: il vuoto - nelle strade, nelle case, nelle pubblicità - è palpabile: non si sa dire cosa manca, ma si percepisce il vuoto, e la pulizia di quell'assenza.
Si parla di decrescita e ogni persona sensata non può che riconoscere la necessità di una "nuova" sobrietà, di un agire più sano che non riempia la nostra vita con le Cose: eppure, chiuso l'armadio, so che dovrò comprare almeno un paio di pantaloni, un golf, fors'anche una giacca. E abbiamo finito i crackers e il tofu, e c'è chi ha bisogno i quaderni e chi la saponetta, senza contare che sarebbe anche ora di comprare l'antiscivolo per il tappeto e uno zaino decente per chi porta lo zaino (totale, due zaini decenti). Lo zaino serve per portarci dentro le cose, ovviamente: hanno bisogno di noi per andare da un posto all'altro. E sono instancabili, neh? (sì, lo so, avrei dovuto parlare del governo e della sua pagliacciata, Bibì e Bibò che si fanno carognate ma poi amici come prima: ma, in quel caso, il titolo del post sarebbe stato proprio sbagliato)